A.C. 1142-A ed abbinate
Presidente, stiamo discutendo di uno fra i temi più delicati di cui un’Aula parlamentare si possa e si debba occupare. Siamo consapevoli che attorno al tema del fine vita e della libertà di accettare o rifiutare un trattamento sanitario si intrecciano visioni religiose, etiche, filosofiche contraddistinte da mille sfumature, talvolta radicalmente diverse.
Inoltre i profili giuridici, le condizioni di contesto di natura tecnico-scientifica in cui si è sviluppata in questi anni la richiesta di un intervento legislativo, appaiono dense di una complessità che suggerisce la necessità, oltre che l’opportunità, di affrontare queste questioni all’insegna del diritto mite, come è stato già detto dai miei colleghi. In particolare, la forza dell’innovazione scientifica e tecnologica, che ha creato uno spazio nuovo di vita artificiale, ha scomodato i giuristi, ma interpella la coscienza delle persone.
In questa complessità, siamo chiamati a prendere decisioni facendo lo sforzo di evitare il facile rischio di normare su singoli casi, subendo l’influenza di specifici fatti di cronaca e del carico emotivo che determinano nell’opinione pubblica. Né facciamo un buon servizio al Paese se utilizziamo categorie standardizzate a priori, se elenchiamo situazioni specifiche da prendere in considerazione, una varia casistica, condizioni patologiche particolari. Dobbiamo bensì fermarci sulla soglia di una regola che rispetti l’identità e la libertà di ciascuno, indicando gli strumenti affinché si possa esprimere.
È la scelta che compie il testo che la collega Lenzi ci ha presentato qui oggi, all’insegna del diritto mite, suggerito da molti esperti che ci hanno dato utili suggerimenti in fase di audizione, ma che contraddistingue anche alcune proposte di legge fra le numerose presentate (modestamente anche la mia), che raccoglie in larga parte l’esperienza tedesca, che ha avuto il pregio di ridurre al minimo le distanze fra visioni etiche altrove molto distanti. Facciamo una scelta che rispetta il bilanciamento fra la volontà della persona e la responsabilità del medico, che - ricordiamo - si ispira nella sua azione al principio primum non nocere. Del resto è l’impianto costituzionale, che si fonda sull’equilibrio fra il rispetto dell’autonomia e della volontà del singolo e le esigenze della società, ferma restando la preoccupazione di porre il corpo della persona al riparo da interferenze esterne. È l’equilibrio fra il diritto sociale ad essere curati (articolo 32), e la libertà di rifiutare le cure o interrompere le cure intraprese. Preferisco valorizzare il dato dell’equilibrio invece che il termine “mediazione”: anch’essa nobile arte in politica, sia chiaro, ma in questa circostanza io ritengo che il lavoro sin qui compiuto abbia avuto il merito anche di far convergere culture diverse; non solo: soprattutto di mettere al centro dell’attenzione la persona e il principio di uguaglianza.
La volontà della persona si esprime nel consenso informato, allorché condivide il piano condiviso delle cure, oppure quando affida la sua volontà alla disposizione anticipata di trattamento, sulla base delle sue personali convinzioni, certamente, nell’eventualità che non fosse più in grado di esprimere il proprio consenso. La disposizione anticipata di trattamento in verità potrebbe essere vista come una modalità per evitare che la perdita di coscienza determini anche la perdita di un diritto fondamentale della persona. Teniamolo ben presente: nulla si può fare senza il consenso della persona malata.
A questo proposito, i richiami fatti qui da alcuni colleghi su presunti cedimenti ad un approccio ideologico francamente sconcertano, e temo che nascondano forse un interesse di posizionamento politico che non giova alla discussione che dobbiamo affrontare, anche con eventuali chiarimenti ulteriori da apportare al testo in quest’Aula. Spero di sbagliarmi, naturalmente, in questa mia prima interpretazione di alcune delle critiche che con particolare enfasi sono emerse oggi; anche perché devo dire che questi stessi colleghi, quando hanno avuto responsabilità di maggioranza (e c’erano) o di Governo (e c’erano), ben si sono guardati da avanzare proposte di modifica della legge n. 194 del 1978, per esempio, oggi così aspramente criticata.
Dicevo che l’attenzione della relatrice evidenzia l’ancoraggio costituzionale del testo, ma allo stesso tempo tende a farsi carico dell’evoluzione giurisprudenziale intervenuta, nonché delle nuove istanze indotte dai mutamenti sociali, in particolare dalla tendenza, che reputo giustissima, di non soffrire più, di non morire tra sofferenze e dolori, peraltro inutili e perciò da evitare.
C’è da chiedersi se abbiamo fatto tutto il possibile per far sapere che esiste la legge n. 38 del 2010, che il Parlamento approva in una fase in cui il tema è stato portato all’attenzione dell’opinione pubblica in coincidenza con i drammatici fatti che hanno seguito la vicenda Englaro, e che grazie all’ostinazione della capogruppo del PD in XII Commissione, l’onorevole Turco, e del gruppo intero è stata portata in Aula e ha ottenuto il via libera del Parlamento prima di affrontare il testo che il collega Calabrò aveva presentato, che peraltro poi non è stato approvato. Quanto incide la solitudine di fronte a una diagnosi infausta? Quanto incide la preoccupazione di pensare con carichi assistenziali eccessivi sui propri cari? Quanto incide il timore umanissimo di sofferenze fisiche che appaiono insopportabili, vissute già nel contesto familiare o amicale? Quanto influisce tutto ciò nella decisione, talora disperata, di farla finita? Queste situazioni ci interpellano nell’effettiva applicazione della legge n. 38 sulle cure palliative e le terapie contro il dolore, ed è necessario ed indispensabile non far mancare mai - dico mai! - la necessaria assistenza prevista da una norma ritenuta da tutti come una delle migliori esistenti.
Ma accanto a queste circostanze sappiamo che ci sono altre situazioni che ci interpellano: coloro che pensano giusta per sé la fine naturale della vita e rifiutano un prolungamento artificiale. Si può imporre un trattamento sanitario che la persona ritiene lesivo della propria dignità sulla base delle sue convinzioni etiche? No, certamente. In tal caso, c’è la consapevolezza che la sospensione del trattamento sanitario lasci spazio al decorso della malattia e sopraggiunga la morte come un evento naturale. È questo il diritto a morire? No. Dobbiamo essere chiari: questo sì, se venisse sancito, implicherebbe la legalizzazione dell’aiuto al suicidio o dell’omicidio del consenziente, due fattispecie che definiscono l’eutanasia, ma questa legge non consente ciò. È invece una legge che permette di lasciarsi morire, e questo è un diritto. La discussione, che in queste settimane e anche in quest’Aula oggi è stata contraddistinta da alcune preoccupazioni che il dibattito parlamentare spero aiuterà a capire, si è concentrata sul rischio di una possibile deriva eutanasica. L’ha detto già il collega Burtone: non è così. Con la DAT, con il consenso informato, con la pianificazione delle cure, la persona compie una scelta, talvolta proiettata anche nel futuro, fondata sul diritto di accettare o rifiutare un trattamento sanitario. È una persona consapevole che sa che il suo rifiuto può quasi certamente mettere a rischio la sua sopravvivenza. Con l’eutanasia, invece, una persona chiede che un terzo, normalmente un medico, somministri una sostanza letale che provoca la morte. E somministrare un farmaco che provoca la morte, colleghi, lo sappiamo, non è un trattamento sanitario. In tal caso la morte è ascrivibile alla somministrazione del farmaco, non alla scelta di rinunciare a un trattamento sanitario. C’è una seconda questione quasi ‘premissiva’ che viene avanzata e riguarda la necessità o meno di una legge. L’argomento ha un suo limitato rilievo, perché la Convenzione di Oviedo e la nostra Carta Costituzionale definiscono già i profili per attribuire validità al consenso informato ed alla D.A.T. – disposizioni anticipate di trattamento -, ma la giurisprudenza variegata perché indotta da singoli casi, ci chiama alla responsabilità di una scelta normativa che indichi i cardini essenziali della disciplina sul consenso informato, la pianificazione delle cure e la D.A.T..
Peraltro anche il recente documento del Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari che ha divulgato la “Nuova carta degli operatori sanitari”, a differenza della precedente, afferma a proposito del Morire con dignità e della rinuncia ai trattamenti, che ciò “può voler dire il rispetto della volontà del morente, espressa nelle dichiarazioni o direttive anticipate di trattamento, escluso ogni atto di natura eutanasica. Il paziente può esprimere in anticipo la sua volontà circa i trattamenti ai quali desidererebbe o no essere sottoposto nel caso in cui, nel decorso della sua malattia o a causa di traumi improvvisi, non fosse più in grado di esprimere il proprio consenso o dissenso”
Ma il testo è significativo anche a proposito della dignità del morire, evocata poco fa in quest’aula con accenti che sembrano rimuoverla dalle aspirazioni delle persone, ed invece la predetta “Carta” afferma che in fase terminale la dignità della persona si precisa come diritto a morire nella maggiore serenità possibile e con la dignità umana e cristiana che gli è dovuta. Tutelare la dignità del morire significa rispettare il malato nella fase finale della vita”. Ed ancora: “questo diritto è venuto emergendo alla coscienza esplicita dell’uomo d’oggi per proteggerlo, nel momento della morte, da un tecnicismo che rischia di divenire abusivo”.
Un testo chiaro che ci aiuta ad affrontare temi così delicati con la consapevolezza che una sintesi alta è possibile, nella misura in cui la vogliamo davvero costruire. Ho citato la Nuova Carta degli operatori sanitari del Pontificio Consiglio con pudore, perché se per i credenti come me può ispirare la nostra azione nelle aule parlamentari, so che non posso tradurla in emendamenti, so che è lasciato alla responsabilità di ciascuno di noi il dovere del confronto con chi è mosso da altre visioni della vita, da diversi orientamenti filosofici affinché con approccio laico, come impone una società pluralista e nel solco dell’impianto costituzionale sentiamo l’ambizione di trovare su questi temi un ampio consenso che superi anche gli orientamenti di partito.
(Testo integrale)